La scoperta del ricercatore italiano: «Il mio cemento che pulisce l’aria»

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    La scoperta del ricercatore italiano:
    «Il mio cemento che pulisce l’aria»






    Il chimico di Bergamo Luigi Cassar selezionato tra i migliori inventori d’Europa. «L’Italia non è accogliente con i ricercatori. Competitività non significa costi e salari bassi»


    C’è anche l’Oscar europeo per la miglior invenzione. E soprattutto c’è un ricercatore italiano entrato per il 2014 nella «rosa» dei pretendenti al riconoscimento che guarda a un futuro e a un mondo migliori. Luigi Cassar corona oltre mezzo secolo di vita trascorso nei laboratori chimici proponendo per il premio il suo cemento mangiasmog: grazie a questo ritrovato, si è aperta la possibilità di costruire palazzi che, invece di togliere ossigeno e aria pulita, la restituiscono all’ambiente. Un cemento, insomma, che funziona come un albero.

    Esiste ancora un’Italia che sa innovare e che si appassiona ai brevetti; fa specie semmai che ad incarnare tale eccellenza sia un distinto signore di 76 anni e non un giovane. «Sono ormai in pensione da qualche anno e ho 9 nipoti; alcuni di loro vivono in Australia e negli Stati Uniti e stanno valutando la possibilità di rimanere in quei paesi» dice Cassar anticipando un giudizio poco lusinghiero sulle prospettive della ricerca in Italia. Per quasi vent’anni la «casa» dell’inventore del cemento ecologico è stata l’Italcementi di Bergamo, nei cui laboratori è nato il materiale ora in lizza per l’European Inventor Award. Ma prima di fermarsi nella cittadina lombarda Cassar ha fatto tappa in mezzo mondo: nato a Tripoli nel ‘38, è approdato ai laboratori della Montedison nel ‘61 passando poi per esperienze negli Stati Uniti, in Svizzera e poi ancora nella Montedison divenuta nel frattempo Enimont. «Lì mi sono reso conto - racconta il chimico - che la ricerca non era più un impegno concreto per l’Italia, nemmeno per un grande gruppo come Enimont. Per fortuna ho potuto proseguire il mio lavoro in Italcementi».

    E qui prende forma il cemento mangiasmog. Che come spesso capita a molte invenzioni, nasce grazie a una buona dose di casualità. «Gli architetti e i costruttori - ricorda Cassar - ci chiedevano di mettere a punto un intonaco bianco in grado di resistere alle intemperie e mantenere brillantezza e candore. Partendo dal fatto che il cemento ha un superficie porosa abbiamo creato un materiale che reagisce alla luce solare». La chiave di volta è stata l’impiego di ossido di titanio, capace appunto di restare «più bianco del bianco» proprio se esposto alla luce. E così sono nati, verso la fine degli anni 90 edifici tirati a lucido col nuovo rivestimento, il primo dei quali è stata la chiesa Dives in Misericordia, costruita a Roma dall’archistar americana Richard Meier. Ma testando la resistenza del cemento si sono scoperti gli effetti collaterali inaspettati. «I rilievi da noi effettuati - ecco ancora le parole dell’inventore - ci dimostravano che nell’aria attorno all’edificio diminuiva del 50% la concentrazione di ossidi di azoto, di anidride solforosa, di formaldeide. Prova e riprova abbiamo dimostrato che non si trattava di un caso ma di una azione innescata proprio dal nostro cemento. Che a quel punto è stato brevettato come mangiasmog».

    Sarebbe però ingeneroso dire che il risultato è stato raggiunto solo grazie a un colpo di fortuna. «Fondamentale è stata la collaborazione che Italcementi ha instaurato con il Cnr, con l’università di Ferrara, con il centro di ricerche della Comunità Europea di Ispra, per i test di validazione». «Da parte nostra abbiamo investito in ricerca l’equivalente del 5% del totale delle vendite del gruppo» afferma da parte sua Carlo Pesenti, consigliere delegato di Italcementi.

    Ma l’Italia di oggi è un posto accogliente per un ricercatore? «Assolutamente no - riprende il discorso Cassar - . I centri sono troppo piccoli, talmente piccoli che spesso non hanno nemmeno il tempo di leggere tutte le nuove pubblicazioni scientifiche. E questo rappresenta già un gap notevole. Ma poi vedo un disimpegno, salvo lodevoli eccezioni, da parte delle imprese, della politica, dei sindacati sull’argomento. Troppo spesso si fa coincidere la competitività di un sistema con i bassi costi di produzione, con i bassi salari. E invece è vero il contrario: se si vuole innovare bisogna pagare bene le persone».

    E invece mille euro al mese restano un sogno per molti giovani ricercatori. Era così anche negli anni ‘60 quando lei mise piede alla Montedison? «I raffronti sono difficili ma un fatto me lo ricordo bene. Quando negli anni 80 tornai in Italia lavorando per Enimont accettai uno stipendio inferiore a quello che mi garantivano in Svizzera. Poco male, ma purtroppo mi resi ben presto conto che l’innovazione e la ricerca non erano già allora ritenuti una priorità persino in un grande gruppo come quello per cui lavoravo».



    http://www.corriere.it/ambiente/14_maggio_...c34e6c0bb.shtml


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