Michael Jackson: Lacrime POP per l’eterno sovrano di una cultura orfana

by Giuseppe Mazzola

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    Michael Jackson: Lacrime POP per l’eterno sovrano di una cultura orfana



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    “Noi siamo il mondo, noi siamo i bambini,
    noi siamo quelli che possono rendere un giorno più luminoso…
    e allora cominciamo a dare qualcosa…”

    Michael Jackson, We Are The World (1985)


    Basterebbero queste poche e semplici parole, neanche tanto ricercate nella licenza poetica, tratte da una delle più celebri composizioni musicali di Jackson, (primo universale inno di pace nella storia della musica che, nel 1985, tanto fece per raccogliere fondi a favore dei bambini disagiati in Etiopia); parole di conforto e di speranza, per spiegare una delle personalità più complesse e discutibili che il mondo abbia mai conosciuto, idolatrato, massacrato fino alla crocifissione (e glorificazione) mediatica.

    Sulle note del demo di “We Are The World”, un pianoforte sorretto da un coro swahili accompagna la voce sofferta, in bilico tra l’angelico e il ripudiato, di un Michael Jackson che canta al mondo il bisogno di trasformare un talento, un potere, in emergenza; i bambini stanno morendo tra fame e malattie, lì nell’Africa dimenticata, mentre l’America del progresso e del “tutto è possibile, tutto è in America”, consuma amori di plastica e venera l’ennesimo re del niente, che cederà il trono molto presto al prossimo erede di gasolio, uscito dall’ennesima fabbrica di plastica, per l’ennesimo fenomeno di massa.

    E’ il 1985, siamo nel cuore degli anni Ottanta; gli anni dei fast foods, dei capelli cotonati, delle passerelle colorate e azzardate da improponibili indumenti sintetici;

    Michael ha quasi ventisette anni, un’età in cui non sei più un bambino, ma a fatica ostenti quella maturità che ti renderà adulto; sono gli anni in cui per sentirti sano devi ammettere a te stesso di avere due grandi confini umani, la mortalità e i limiti; i legami patologici con la propria infanzia, mai vissuta e tanto drammaticamente rievocata con tentativi estremi di illusorie fiabe vivificate sulla terra, cominciano a minare la sua esistenza fatata; il suo volto, i suoi occhi, i suoi passi, tutto di lui rinnega l’idea del domani, tutto in lui cerca un punto in cui cristallizzarsi; lo cerca nel passato, in quell’infanzia mai vissuta, sacrificata sul palcoscenico dove ogni giocattolo diviene un’ovazione al ricordo, che lo avvicina ogni giorno, sempre di più, all’olimpo dei miti di plastica.


    Forse non a caso, a mio avviso, questo brano arriva proprio in un momento culminante del duello interno che affligge quest’uomo da fin troppo tempo; nel momento in cui l’effetto “THRILLER” l’ha reso più un dio che un uomo, il piacere del canto diviene strumento divino per le masse, l’eternità dorata lo chiama a scrivere il suo nome nella storia. Michael tutto questo, in fondo, non lo vuole. Perché se è vero che la sua voce e il suo talento gli danno accesso all’eterna vita, il tempo gli ricorda che sta crescendo e che, anche lui, è un uomo come tutti. Presto o tardi anche Michael Jackson… morirà.

    E allora lui, che adesso è il mondo, cerca di dire a questo mondo “…io sono il bambino…”, e lo fa con gli strumenti che più gli competono; l’alienato e alienante universo di plastica della musica Pop, figlia legittima di quell’effimero, eppur saturo di contenuti, mondo POP; un ipocrita e collodiano cosmo che rappresenta l’America nel momento in cui l’America rappresenta il mondo intero. Paradossalmente Jackson cerca drasticamente di rappresentare il mondo, un mondo che non c’è, ma che è possibile vivere perché l’America gli offre l’opportunità e gli strumenti per scoprirsi creatore, nella plastica e nell’inanimata finzione di luci, giostre e grilli parlanti posti in ogni angolo delle sue strade.

    E’ così che, allora, diventa pressante (e frustrante), il suo bisogno di rappresentare gli Stati Uniti, guidare e sintetizzare gli americani e le loro glorie; perché gli States sono la patria dei sogni, da realizzare e da vivere, il lasciapassare all’isola che non c’è, che proprio perché la natura mai gli donerà, lui la costruirà per grazia divina della dea sintetica della cultura Pop.

    Occhi lucidi e indifesi coperti da grandi lenti scure, giacca militare rivisitata con decorazioni dorate simbolicamente buoniste, l’ormai fedele guanto di paillettes alla mano destra seguito da analoghe calze appena accennate da insoliti mocassini di vernice; Michael raduna a sé un imbarazzante numero di celebrità per cantare in coro l’emergenza Africa; lo fa in disparte registrando da solo la sua parte vocale (guai a lasciar trasparire debolezze emotive, sarebbe una sconfitta), e poi dirigendo ogni singolo artista come un vecchio direttore d’orchestra; si defila, allora, nel cuore della notte, in disparte; in una silenziosa analisi di sé che in questo brano trova davvero la sintesi della sua esistenza incompleta e incompiuta, sacrificata e giustificata nel annullamento di un’identità regalata alle masse.


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    E’ un’analisi Pop, di se stesso, di un triste mondo forzatamente colorato, di un’infinità di pensieri raccontati con effetti speciali; lì dove ogni arma diventa giocattolo e ogni divisa un abito di scena per far vibrare ed emozionare le folle; Jackson si nasconde, ma neanche così tanto bene; schiva l’anima complessa e ferita, di un uomo che ha reso se stesso oggetto di serie (e in serie) da dare in pasto a tutti, sacrificando la propria umanità per quell’eternità disneyana che lo riscatterà da ogni sogno perduto.

    Raccontare e spiegare Jackson non è facile, specie oggi che su di lui tutto è stato scritto e rivelato.
    Ma non si può analizzare la sua arte,ignorando il mondo dal quale è venuto, che l’ha influenzato in superficie scavandolo dentro, fino alla patologica e totale dissociazione di se dal mondo reale, per uno fittizio e consumato dal “consumo” stesso della propria immagine, impressa in un qualsiasi prodotto in vendita negli scaffali di un qualsiasi negozio negli angoli più impensabili del globo.

    La storia del Nuovo Mondo è un giro sulle montagne russe tra valori perduti e principi inventati; già nei primi anni Quaranta, con il film “Dreams That Money Can Buy” , gli Stati Uniti mettono i puntini sulle “i” sull’importanza del denaro nella società moderna americana; e se da una parte la pellicola urla alla caducità dei valori e dei principi della società (tutti i sogni si possono realizzare se possiedi il potere divino, il denaro), dall’altra parte apre le porte al diritto di realizzazione e possessione di ciò che si desidera (la compensazione di sé) per mezzo economico e commerciale.
    I valori così diventano oggetti che tutti possono acquistare, tutto il resto è giustificato con una nuova interpretazione di uno strano platonismo compromettente; l’alibi plausibile e ufficialmente accettato per motivare l’impossibilità d’acquisto di tutto quello che va oltre la portata di tutti. Un nuovo linguaggio visivo, filtrato e assimilato a sua volta dai grandi mezzi di comunicazione di massa, come il cinema e la televisione, i manifesti pubblicitari e i romanzi, tutti i mezzi di rapida comunicazione utilitaristica divengono adesso veicoli di trasmissione artistica.

    Nasce la Pop Art, un movimento culturale ambiguo quanto efficace nel denunciare le precarietà sociali ed esaltarne i bisogni. L’America ha la sua nuova Sodoma e Gomorra, New York, come una grande fabbrica di plastica, dove tutto, newyorkesi inclusi, si rivela essere un prodotto ben plastificato; e l’uomo-emblema di questo grande mondo di plexiglas, è senza dubbio Andy Warhol, il più famoso e chiacchierato, e anche il più radicale, artista newyorkese.

    Egli porta gli scaffali del supermercato dentro i musei, conferisce a una lattina di pomodoro la stessa poetica di un’icona medievale, trasforma la materia artificiale nel nuovo (vero) senso della vita, e riduce il senso stesso della vita in sola materia deteriorata. L’uomo, la sua immagine, la sua dignità, il suo esistenzialismo ridotto e ricondotto al mondo dei media; è un mondo di celebrità, di effimere anime elette scese in terra e destinate alla gloria terrena come dei della nuova era catodica; il cinema, le star di Hollywood, i grandi titoli dei tabloids; Warhol si depura del corpo e dell’anima, li imprime in serigrafie su tela, li riproduce e li moltiplica; ne altera i connotati e i cromatismi; li rende così estremi ed essenziali da escluderli da qualsiasi genere, e nell’allontanarli dal mondo li democratizza alla massa, prima americana, poi del resto del pianeta; fa di essi icone di quello che non sono; ne scredita il valore umano, ogni principio è ridotto alla serialità arida di umanità; coniuga il mondo che le star hanno innalzato in cielo con la plastica che ne ricopre le menti, fonde le pulsioni del suo popolo fino a renderle una sola e indefinita, la moltiplica fino alla produzione meccanica e anonima, debordata oltre la più diretta e scomoda accusa di precarietà individuale.

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    L’uomo è oggetto, un oggetto di uso e disuso in una massa di masse, che consuma il prodotto in quantità industriale, veloce ed efferata, tralasciandone il contenuto e il valore intrinseco, per una mercificazione della cosa in sé: l’uomo è oggetto di se stesso, esaltazione al potere del nulla e del vuoto; ecco perché Warhol prende i nomi importanti e conferisce loro una nuova vita, un nuovo valore, attraverso l’abolizione dell’importanza umana stessa.

    E lo fa a modo suo; prende tutto quello che è americano e privo di valori; dalla lattina di pomodoro alle icone idolatrate di Marylin Monroe e Liz Taylor; dalla Coca Cola al Michael Jackson di Thriller.

    E proprio Michael Jackson, con il quale Warhol ha avuto uno stretto legame artistico e mediatico, rappresenta nella prima metà degli anni Ottanta, quell’America totalitaria e fantastica che Warhol ha estremamente cercato di azzardare, astrarre dalla realtà, democratizzare come un comic-book a basso costo per bambini e adulti, accessibile a tutti coloro che sentono il bisogno di possedere qualsiasi cosa che non sia davvero importante avere nel momento in cui si pensa ad altro.

    Warhol, il freak dell’America perbene, della quale prende miti e leggende e ne fa una galassia di melassa, è un lontano padre per Jackson, che di questa galassia assorbe lo spirito meritocratico del mito dell’ american dream, e lentamente lo usa per creare uno, due, infiniti mondi.

    Un mondo, il primo, il suo: NEVERLAND, l’isola che non c’è, un mondo fittizio dove poter ricostituire e rivivere la propria infanzia, circondato da esotici esperimenti di luci, action figures giganti rubate a Walt Disney; dove sculture neoclassiche e architetture donatelliane, si confondono a ordini high-tec, luci psichedeliche, giostre vittoriane e auto celebrazioni neo-rinascimentali; la summa della storia del mondo (come quella dell’uomo) rivisitata da un folletto che, nella storia, ci è entrato sfruttando tutti i modi possibili che il suo tempo gli potesse permettere.
    Un secondo mondo, quello dell’arte, che Jackson, come Warhol, sconfina oltre le più immaginabili collisioni, democratizzando tutto e nulla, sulla falsariga della citazione al classico, dell’auto celebrazione esasperata; trasferito poi, con il suo nome e la sua immagine su tutto, in ogni contesto commerciale che permettesse visibilità, vendita, sdoganamento totale.

    E poi gli infiniti mondi che Jackson esplora prima, e invade dopo: dalla musica alla danza, dai videoclip al cinema d’autore, dalle bibite gassate alla cioccolata, dalla moda ai giocattoli, dai libri alle action figures da collezione; dai francobolli alla carta da parati: Jackson è un padre del Pop, quello vero; ma ne è anche figlio, il figlio maggiore, quello più illustre e con più responsabilità; e come Warhol, egli si vende donandosi in pasto alla cultura che tanto osanna e governa, quella popolare.

    Ho avuto, l’onore, il privilegio, di conoscere Jackson anni fa; era il 1996, in occasione dei World Music Awards. Io ero ancora un adolescente, il classico quindicenne con tanti sogni e un unico grande mito; eppure potevo vantare già anni e anni di fede sincera per lui. Quel primo incontro fu fortuito, ci incontrammo dentro una cristalleria dove si apprestava a fare shopping, lui notò un mio quadro e volle incontrarmi. Assaggiai, per la prima volta, il gusto (concesso a pochi) di poter vedere realizzato il più grande sogno della mia vita, riportandolo alla mia realtà. Non potevo crederci!

    Nei tre anni successivi gli incontri si moltiplicarono col susseguirsi dei suoi concerti: Praga, Budapest, Bucarest, Madrid, Milano, Berlino… Una fede che divenne punto d’arrivo, una passione che sfiorò il fanatismo ma si affievolì tappa dopo tappa, per disperdersi in una crescita che mi chiedeva sempre più insistentemente di trasformare quella passione in contaminazione. Mi ero reso conto che Jackson era divenuto, per me, fonte di ispirazione: la sua immagine era un’icona da riprodurre come la più bella delle Madonne da studiare; la sua mente il mondo più complesso e affascinante nel quale perdermi. In una società dei consumi come la mia, che nessuno si scandalizzi se oggi i nuovi Santi, le nuove Madonne, sono miti e falsi messia come lui.

    La svolta avvenne nel 1999 a Monaco di Baviera per il Michael Jackson & Friends: un’intima chiacchierata tra due amanti dell’arte. Quindici…forse venti minuti, io e Michael soli nella sua stanza a discutere della città, delle altre città, dell’arte, la sua, la mia, l’arte tutta; per la prima volta assorbivo la sua essenza lasciandomi attraversare l’anima da una lunga storia che era un po’ sua e un po’ mia; la sua inspiegabile aurea carismatica che l’ha reso Michael Jackson, il mio sogno adolescenziale che aveva preso contatto con la realtà oltreogni mia previsione.

    Dopo quel giorno cominciai a lavorare per lui impiegando le mie energie nella direzione artistica del suo fan club americano, l’unico autorizzato da lui. Per dieci anni esatti nella vita mia si sono aperte le porte a un’esperienza unica; chissà quanta gente avrebbe venduto la propria anima per un solo minuto con il Re del Pop, questo me lo sono sempre chiesto ma non ho mai preteso una risposta, avrei perso la ragione o magari la lucidità. Eppure io, col passare del tempo, sono diventato sempre più una mosca sul muro quando c’era Michael nei paraggi; perché la bramosia di studiare e capire un artista (che per me rimane un genio smisuratamente indiscutibile), superava ogni forma di fanatismo ed esaltazione.

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    Ricordo ancora una sua conferenza stampa a New York nel febbraio 2000; era il giorno di San Valentino e Michael aveva scelto quel giorno per discutere dei problemi dell’infanzia, senza tralasciare la sua.

    Michael pianse, dimagrito e frustrato più del solito; davanti a una folla oceanica al Carnagie Hall, nel centro della grande Mela.

    Così, mentre folle isteriche elogiavano il suo dolore, come se oggi essere un bambino abusato fosse un premio; io mi preoccupavo di realizzare un servizio fotografico, e intanto era inevitabile andare con la mente a quelle terre lontane delle sue origini; dove un genio indiscusso e prematuro, si impossessa di un’inspiegabile demone angelico che gli promette l’eternità a costo della felicità terrena.

    Quel giorno ho visto un Michael Jackson umano, credo l’abbiano visto in tanti; perso nella fragilità del suo fisico gracile e segnato dall’insoddisfazione del suo tempo; occhi grandi, quasi disegnati, labbra serrate, un’infinita ombra sul suo volto scavato e nascosto sotto lunghe chiome nere…non era il Michael di MTV, non era il fenomeno da palcoscenico, non era l’atmosfera dei Grammy Awards, che tante volte l’hanno fatto entrare nei guinness dei primati.

    Per la prima volta su quel palco c’era un uomo stanco, che parlava al mondo come se parlasse al vento; per la prima volta su quel palco c’era un uomo consapevole di aver narrato a lungo tempo, su melodie dissolute e tecnologiche, storie nate dal vento; perché Michael faceva del vento grandi storie… ma fino a quel momento non aveva capito che con troppo vento, egli stesso non era in grado di sentire nulla.


    Quel giorno lo udirono in molti, ma davvero pochi furono coloro che lo sentirono piangere, soffocato in un dolore troppo fragile per superare le osannanti preghiere dei suoi discepoli.



    Da quel giorno divenni più umano anch’io; cominciai a capire dall’interno come una leggenda vivente, la più grande icona Pop, fosse vittima di un sistema da lui stesso creato; Jackson aveva sempre perseguito e perseguitato l’impero artefatto e plastificato della società contemporanea, senza mai accontentarsi di quello che per qualsiasi artista potrebbe essere abbastanza.

    A lui non bastava essere un bambino prodigio, il creatore del disco più venduto della storia; a poco serviva quel merito di aver inventato gli short-films musicali entrando nell’olimpo del cinema dalla porta principale; ne gli bastava l’isteria che da decenni incorniciava la sua vita, la consapevolezza di essere più famoso quasi di Gesù…tutti fattori esaltanti, traguardi fondamentali per costruire un impero, la cui vita è breve quanto il tempo che si impiega per consumare un hamburger al fast food.


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    Perché il regno di Michael è questo; un talento smisurato, unico, geniale, trasformato in prodotto di consumo, per arrivare a tutti ovunque e comunque, per essere mangiato, usato, gettato via, fino all’arrivo del prossimo prodotto, di altro uso magari, o forse del tutto inutile, l’importante è che sopra esso ci sia impresso il marchio M.J. Jackson,

    allora, come Jasper Johns e Robert Rauschenberg, con le loro infinite e stravaganti amicizie e contaminazioni di altri canali artistici; Jackson oggi con grandi registi quali Scorsese e Landis, divi del cinema come Liz Taylor, Marlon Brando; musicisti come Stevie Wonder e Freddie Mercury, ballerini come Fred Astaire… e poi Jackson come (e con) Warhol, che lo aiuta a rendere ancora più Pop la sua immagine nei primi anni Ottanta; e Jackson in fondo come figlio dello stesso Warhol; irruento, chiacchierato, discusso, figlio di un mondo da assorbire e da plasmare su se stesso, per poi rigettarlo alle masse come forma d’arte, l’arte più dibattuta, ma anche la più venduta, l’arte che ti lascia senza parole ma che ti chiede di dire qualcosa, l’arte priva di contenuti emotivi ma che ti riempie dentro degli stati d’animo più nascosti…l’arte colorata e finta come un sogno infantile, eppur la stessa arte che mette in croce il crudo mondo adulto e di esso cambia il senso.

    Eppure, oltre gli universi che la vita può offrire a un solo uomo, oltre la gloria da lui assorbita; quello che mi rimane, dalla mia esperienza lavorativa per Jackson (e su Jackson), è la consapevolezza di un uomo unico e paradossale, come mai nessuno visto sulla terra, o come mai scoperto; l’idea che mi rimane è quella di un artista dal talento prematuro e sconfinato, talmente fuori misura da non poter essere contenuto in un solo gracile corpo.

    Ricordo ancora le innumerevoli tele che decoravano la sua dimora presso quel fatato e surreale ranch di Neverland Valley; un esteta fuori dalle regole e da ogni logica,

    un uomo innamorato della bellezza intatta ed effimera del divino, così inaccessibile eppure di proprietà universale, eterna e incorruttibile… Jackson innamorato e fedele compagno di un’ideale neoplatonico (e scomodo) della realtà come di se stesso; un essere unico, sospeso tra gli ordini di Dio e i disordini degli uomini del suo caotico tempo; credo che a un certo punto questo fragile ma indistruttibile Peter Pan abbia deciso di incidersi nella memoria storica dell’umanità, graffiando le più alte possibilità di immortalità: Michael Jackson, tra quelle infinite mura, era un Dio strappato alle sacre mani latine, un supereroe da osannare a modello assoluto… eppure fuori le mura dell’isola che non c’è, le cose non sempre sono proprio così.


    Ma come un Dorian Gray addolcito e martoriato, Jackson incise nella (sua) storia, quell’eroe assoluto che nemmeno la morte avrebbe placato.
    Jackson oggi non calpesta più la materia dei viventi biologici. Il 25 giugno 2009, a dieci anni esatti dall’inizio della mia avventura, la parola fine ha scritto l’ultima pagina sull’ultimo viaggio che io potessi compiere per lui; la spaziale Arena O2, nei sobborghi periferici di Londra; che da lì a breve avrebbe accolto il Santo spaziale per l’ennesima follia Pop.

    Dieci anni di formazione, di influenze indescrivibili, per me Jackson è stato una musa. Come la Vergine per i grandi sommi maestri, la mia Immacolata è stata lui; in quelle esili forme delicate, in quel viso androgino in bilico tra manifestazioni angeliche e demoniache, l’essere felice in duello con l’essere tormentato; avere Jackson come musa è stato un privilegio, perché in sé racchiudeva tutti i si e tutti i no che un artista potesse cercare di sintetizzare.

    Rimangono altri infiniti viaggi, nella sua musica, nella sua poesia fittizia, nel suo fenomeno…e adesso anche nell’analisi di un essere indefinito e poliedrico che, tuttavia, ha lasciato tracce indelebili e ben chiare nella cultura Pop mondiale, ereditata da Warhol e pienamente meritata.

    Lui è stato il mondo, lui è stato il bambino, lui ha reso più splendenti i giorni di milioni di fans…lui ha cambiato la realtà spostando il suo tempo nell’irrealtà; ma allora è vero, che le allucinazioni, anche per chi non ci crede, quando toccano il cuore, cessano di vivere nei sogni per toccare il vero, concreto presente, vivente…
    …e Michael Jackson è stato davvero una leggenda vivente…


    © Giuseppe Mazzola

    Fonte: http://giuseppemazzolaidontknow.wordpress....cultura-orfana/

    MY VIDEO TRIBUTE TO THE KING OF POP, ARTWORKS AND DRAWINGS MADE BY ME. G. MAZZOLA

    Edited by ArcoIris - 13/11/2015, 03:15
     
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